GIUGNO CALDO IN ARMENIA: COS’E’ REALMENTE ACCADUTO. Un’interpretazione della protesta

Visto che la stampa e i media italiani si sono occupati ben poco della questione, mi sembra interessante fare una breve analisi di quello che è successo circa due mesi fa in Armenia.

Una rivolta per il rincaro dei prezzi dell’elettricità, una “Maidan elettrica”, un nuovo Gezi Park, un tentato colpo di stato, un complotto ordito dalla CIA e tutte queste cose insieme; per citare alcune delle interpretazioni dei disordini avvenuti durante la fine di giugno a Erevan, capitale del Paese arroccato sui monti del Caucaso.

Le fonti riportano che un corteo tra i 5000 e i 7000 dimostranti ha marciato in direzione del palazzo presidenziale per protestare contro il rincaro dei prezzi (attorno al 20%) richiesto dal consorzio energetico russo Inter-Rao e approvato dal governo attraverso una risoluzione. I disordini, iniziati come protesta contro i rincari delle bollette elettriche, sono presto sfociati in una critica a tutto campo contro il governo

Nella capitale il corteo si è trasformato in un sit-in organizzato dal movimento No alla rapina!. Le proteste si sono allargate a Gyumri, seconda città più popolosa del Paese, e a Vanadzor, entrambe situate nel nord dell’Armenia. Le manifestazioni sono durate circa una settimana, dal 22 al 28, ma non avendo fonti di prima mano mi è difficile fornire date precise.

Ovviamente gli esponenti più estremisti e nazionalisti del governo e dei media hanno subito etichettato la protesta come tentativo di “colpo di stato” da parte dell’Occidente, che fomenta la popolazione contro un governo legittimo ed eletto regolarmente, allontanando così lo spettro russo dal Paese, ma sprofondandolo nel caos. Le ambasciate inglese e statunitense hanno denunciato l’uso eccessivo della forza da parte della polizia e richiesto l’avvio di inchieste approfondite, mentre il Cremlino si è limitato a dichiarare che la Russia osserva gli eventi in corso e si augura che la situazione si risolva “nel rispetto della legalità”.

Alcuni politici e commentatori hanno scorto in queste dichiarazioni alcuni parallelismi con le proteste che erano sfociate nella crisi Ucraina del 2013. Sicuramente si scorgono alcune somiglianze, che meritano un’analisi più attenta.

Per prima cosa il Paese soffre dell’isolamento economico dovuto alla chiusura dei confini con la Turchia e con l’Azerbaijan a causa delle dispute territoriali sulla zona di Kars e del Nagorno-Karabakh. L’Armenia ha da poco (2 gennaio 2015) ufficializzato la propria adesione all’Unione Economica Eurasiatica, unione doganale che comprende Federazione Russa, Bielorussia e Kazakistan. L’idea, nata nel 1991, è stata rilanciata da Vladimir Putin con l’obiettivo di creare una zona di libero scambio, e ha allontanato il progetto di rafforzamento dei legami economici di questi Paesi con l’Unione Europea (obiettivo primario del Deep and Comprehensive Free Trade Agreement). Come nel caso ucraino, l’UE ha sbagliato grossolanamente strategia, ponendo standard troppo elevati che avrebbero compromesso l’entrata di prodotti armeni sul mercato europeo e proponendo la partecipazione allo storico nemico Azerbaijan, rendendo quindi ben poco allettante l’entrata dell’Armenia nell’accordo “comprensivo”. Inoltre si stava contemporaneamente occupando di altri grattacapi interni, come la crisi del debito pubblico greco, e sta tuttora attraversando una fase di retrenchment rispetto alle questioni internazionali, occupandosi soprattutto del “problema migranti” alle frontiere e della minaccia del terrorismo nei propri confini. Dal canto suo, la Russia usa la leva energetica anche per mantenere il controllo sull’area del Caucaso, verso la quale ha sempre mantenuto un atteggiamento “paternalistico”, e sulla quale riesce ad esercitare molta influenza, in senso economico e politico.

Dal punto di vista interno, la ratifica dell’Accordo sembra abbia ricevuto pareri contrastanti dalla classe politica e dalla società armena. Molti lo hanno accolto con favore, ma è stato anche aspramente criticato dalla piazza, snervata dalle difficoltà economiche e dalle promesse di un presidente che non sembra essere stato capace di risollevare davvero le sorti del Paese.

Un punto in comune con il caso turco è proprio la figura controversa del presidente Serzh Sargsyan: ex capo del Dipartimento di Sicurezza ed ex primo ministro, ha fatto anche parte del comitato di governo della regione autonomista del Nagorno-Karabakh (controllata de facto dall’Armenia nonostante appartenga ufficialmente all’Azerbaijan). Nonostante le riforme liberali introdotte durante il suo primo mandato e alcuni tentativi di riavvicinamento con la Turchia, gli anni di governo di Sargsyan sono stati difficili: l’Armenia è stata duramente colpita dalla crisi economica nel 2008-2009 e fino ad oggi ha registrato una delle peggiori performance economiche al mondo. Già nel 2013 la sua rielezione era stata fortemente contestata in patria e, in segno di protesta, i partiti d’opposizione avevano addirittura deciso di non presentare candidati alle presidenziali. Le elezioni avevano ricevuto critiche prudenti da parte degli osservatori dell’OSCE (soprattutto a causa della pratica molto diffusa del voto di scambio), e una cauta approvazione da parte dell’Unione Europea, che era il partner commerciale principale del Paese, e puntava a rafforzare le relazioni bilaterali. Il clima era chiaramente completamente diverso da quello di oggi.

Il secondo mandato di Sargsyan è minato dalla situazione precaria che vive il paese da ormai troppo tempo e il suo Partito Repubblicano d’Armenia, che si auto-definisce un partito nazional-conservatore, non sembra riscuotere più i successi di un tempo. La protesta dunque, sembra aver raccolto tutta una massa eterogenea fatta di oppositori del regime e semplici cittadini, stanchi di dover sopportare la corruzione della propria classe politica e di vedere peggiorare il proprio tenore di vita, vivendo ai margini di un sistema politico-economico che non sembra curarsi di loro.

Dopo aver cercato di sminuire e poi di arginare la protesta, Sargsyan è riuscito soltanto a riunire tutte le opposizioni contro il suo governo, e si è visto infine costretto a sospendere il provvedimento che avrebbe posto le nuove tariffe elettriche.

Ovviamente il caso armeno è unico, ma sembra somigliare a quelli citati perché fa parte della stessa grande partita, che comprende i Paesi europei (nel senso più ampio del termine) in via di sviluppo e di emancipazione e i difficili rapporti tra questi, l’UE e la Federazione Russa, segnati da avvenimenti di politica interna che hanno risvolti di politica estera, il tutto sempre sotto l’occhio tutt’altro che neutrale della NATO.

Uno dei punti focali di tutta la vicenda sembra essere quanto in politica possa essere ancora considerato una questione “interna” e deciso o perlomeno supervisionato dai cittadini votanti. Questo è un problema che si riflette nel quadro di tutte le nazioni dell’Europa contemporanea e ci fa riflettere sul concetto di democrazia e su quanto una potenza economica come l’Unione Europea possa influenzare, nel bene e nel male, le dinamiche che si presentano in aree come quella del Caucaso.

Invece di cercare paragoni forzati, forse è più utile valutare i meriti della protesta di un popolo (o comunque una buona parte di esso) che è riuscito a far valere le proprie istanze e ad ergersi contro il proprio governo quando questo ha imposto una decisione maturata per calcolo economico, cercando di aggirare i controlli che gli sono imposti dalla democrazia.

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