ETIOPIA. Tra grattacieli e diseguaglianze, ci guadagnano Cina e Occidente

L’Etiopia, in passato fantasia imperiale italiana, oggi è terra di conquista cinese. Imprese edili e investitori del Dragone sono in prima linea nella costruzione di grattacieli nella caotica capitale, Addis Abeba. Le costruzioni moderne rappresentano una grande attrattiva per il governo etiope, che sembra voler mostrare il Paese del Corno d’Africa sotto una luce nuova e attrarre investimenti stranieri.

Il mito del palazzone in vetro e acciaio è un po’ ingenuo, se vogliamo essere clementi, ma ancora molto utilizzato come “cartellone pubblicitario” dai politici africani (e di tutto il mondo). Ma dev’essere il grattacielo a seguire la ricchezza, non viceversa. Non basta costruire, se poi non hai nulla da mettere all’interno: negozi, banche, uffici e alberghi rimangono infatti sulla carta.

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Notare la discrepanza tra grattacieli completati e progettati

Molti di questi scintillanti palazzi si rivelano inutili, se non dannosi: la maggior parte di essi rimane vuota, alcuni vengono abbandonati e restano a memoria di un’idea sbagliata di modernità. Nel frattempo, al di fuori della capitale e a dispetto della strabiliante impennata del PIL nazionale, la situazione dei centri rurali sembra essere immutata, e la stessa Addis Abeba non è il polo di sviluppo economico che vuole sembrare.

E allora come mai l’industria edile di provenienza cinese sta cambiando lo skyline della città? Le interpretazioni si potrebbero sprecare, ma personalmente punto sul riciclaggio di denaro. Visto che non ho dati per confermarlo, diciamo che il mio è un azzardo. Non è un caso però se molti cittadini della Repubblica Popolare si trovano nelle carceri del Paese con l’accusa di falsificazione di denaro.

Quel che è certo è che i settori più fiorenti dell’economia etiope sono ormai dominati da Pechino, che ha anche firmato un accordo bilaterale per l’esclusiva sulla costruzione di tutti i futuri palazzi: le aziende cinesi anticipano tutti i costi, in cambio, il governo etiope assicura a queste ogni bando pubblico (compreso quello della futura rete elettrica nazionale).

Le imprese cinesi hanno ormai così tanti capitali a disposizione da poter fare di Addis Abeba un enorme cartellone pubblicitario: la penetrazione cinese in Africa non è una novità e Pechino sembra voler mostrare tutta la propria potenza ed opulenza agli stati del Continente. Ad esempio imprese cinesi hanno costruito anche la nuova scintillante sede dell’Unione Africana, che comprende una sala congressi da 2500 posti, un eliporto e uffici per 700 persone: 200 milioni di dollari completamente offerti dalla Repubblica Popolare (se non è pubblicità questa!).

 

Oltre ai problemi che una certa idea di “sviluppo” sta causando nella capitale – sovrappopolazione, inquinamento ed emarginazione, per citare i principali – le frizioni tra il centro e il resto del Paese rischiano di riportare l’Etiopia nel caos.

Dopo decenni di lotte politiche intestine e una guerra con la vicina Eritrea, l’Etiopia è oggi una repubblica federale semipresidenziale (il Presidente è Mulatu Teshome), apparentemente pacifica anche se vicina a due aree “calde” del Continente quali Somalia e Sud Sudan. Ogni stato federale è abitato da gruppi etnico-culturali diversi; tra essi, il più diffuso è quello Oromo, che conta circa 38 milioni di persone, il 40% della popolazione etiope.

Nella storia recente, nonostante rappresentino una maggioranza, gli oromo sono stati oppressi da tutti i regimi che si sono susseguiti: l’Impero Abissino del leggendario Haile Selassie, il fronte marxista del DERG e il governo del Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope. Ciò ha portato alla formazione del Fronte di Liberazione Oromo, organizzazione paramilitare che si è spesso scontrata con i diversi governi e gruppi rivoluzionari, guidati da politici provenienti da etnie minoritarie ma più influenti, quali Amhara e Tigrai.

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Irreacha, festività tradizionale Oromo

La relativa pacificazione del Paese dopo gli anni ‘90 e l’elezione di un Presidente di etnia oromo non sembrano aver fermato gli scontri tra popolazione e governo.

Dal mese di novembre dell’anno scorso lo stato dell’Oromia è attraversato da manifestazioni e disordini prontamente soppressi nel sangue dalle forze dell’ordine. Le proteste hanno avuto inizio in seguito alla decisione di includere parte dello stato all’interno del territorio della capitale (nel quadro di quello che è stato chiamato “Addis Ababa Integrated Development Master Plan”): la decisione unilaterale del governo non è andata giù alla maggioranza degli abitanti, in particolare ai contadini, contrari all’esproprio di molte terre, per fare spazio ad un non ben definito sviluppo (vedi sopra). Di nuovo mi sbilancio nelle supposizioni immaginando che le pressioni per l’implementazione del “Piano di Sviluppo” vengano dall’industria e dall’edilizia (leggi Repubblica Popolare Cinese e chissà quali altri interessi locali).

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La memoria delle violenze subite nel passato sembra essere ancora viva, ma non si tratta solo di questo: la protesta ha origine dalla frustrazione generata dalla corruzione degli organi statali, dalla distanza delle istituzioni e dalla marginalizzazione culturale che il popolo Oromo subisce ancora oggi. Ma soprattutto dalla contrapposizione paradossale tra il processo democratico inclusivo che sembrava aver investito la politica etiope e il recente decisionismo autoritario del governo.

La risposta delle forze di sicurezza è stata durissima – poliziotti e soldati spesso hanno aperto il fuoco contro i manifestanti, ci sono stati migliaia di arresti e vengono denunciati quotidianamente casi di tortura e abuso di potere – mentre la censura ha coperto ogni notizia sugli avvenimenti in Oromia, sia all’interno che all’esterno dell’Etiopia.

La stampa e l’informazione in generale sono soggette ad una pesante auto-censura e pochi etiopi leggono i giornali, mentre all’estero semplicemente ce ne infischiamo dell’Africa: per questo, fino ad oggi, pochissime notizie sono trapelate, soprattutto grazie all’attività di organizzazioni quali Human Rights Watch e Oromia Media Network.

Lo stesso Presidente Teshome proviene da questo gruppo etnico ed è esponente dell’Organizzazione Democratica del Popolo Oromo: queste proteste sono la prova del disinteresse dell’establishment per le necessità reali dei cittadini, nonostante le tante promesse e speranze. Negando l’esistenza del problema, la politica rassicura gli investitori stranieri, evita il biasimo della comunità internazionale, e dimostra che le decisioni del governo vengono rispettate e che la popolazione è unita.

Il Paese è un alleato importante nella rete di sicurezza faticosamente tenuta in piedi dall’Occidente in Africa e non sarà una protesta popolare, per quanto di grandi dimensioni, a far vacillare il governo. Ma ignorare queste manifestazioni ha una controindicazione: si rischia un’escalation di odio etnico, oltre che una crescente militarizzazione della lotta e l’inserimento di eventuali elementi terroristici.

Chiudendo gli occhi sulle malefatte di Teshome, i partner stranieri rischiano di causare indirettamente una radicalizzazione delle lotte intestine in Etiopia, che potrebbe avere conseguenze catastrofiche nell’area del Corno d’Africa.

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Manifestazione di solidarietà a Washigton D.C.

Grazie a Martina per gli indispensabili consigli.

Link interessanti:

https://www.hrw.org/news/2016/02/21/ethiopia-no-let-crackdown-protests

http://www.bbc.com/news/world-africa-35749065

http://www.aljazeera.com/indepth/features/2016/03/ethiopia-oromo-protests-continue-harsh-crackdown-160321082451685.html

Ethiopia: Why Oromo Protests Isn’t Just a Protest Against a ‘Master Plan’?


2 risposte a "ETIOPIA. Tra grattacieli e diseguaglianze, ci guadagnano Cina e Occidente"

  1. sarà anche stata una fantasia imperiale italiana, che ha prodotto molti danni e qualche beneficio a quel Paese, ma è stato anche un grande errore dell’Italia contemporanea abbandonare ogni legame con l’Etiopia, oggi in mano alla speculazione cinese, che non ha nulla da dare di meglio agli Etiopi di inutili e orribili cattedrali nel deserto, anziché valorizzare un popolo che ha un millenario passato di civiltà, cosa rara nell’Africa subsahariana. Se ogni potenza ex coloniale stabilisse relazioni di solidarietà con i territori già colonizzati, improntate beninteso al reciproco rispetto e senza velleità neocoloniali, forse qualche problema dei Paesi africani sarebbe risolto e disinnescata la spinta all’abbandono delle loro terre da parte degli africani

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